Tra pantofole e capolavori…. Obblighi e limiti nella conservazione delle collezioni

Interessante articolo del New York Times sui depositi di alcuni importanti musei americani

Ho letto con interesse l’articolo del New York Times segnalato il 12 marzo dall’attento Preventive Conservation Working Group dell’Icom-CC.

L’articolo, scritto da Robin Pogrebin e pubblicato il 10 marzo scorso, offre al lettore un focus sulla situazione di alcuni musei americani, e in particolare sui problemi legati alla mancanza di spazio nei depositi.

Le situazioni descritte sono spesso legate a donazioni e lasciti da parte di collezionisti privati, donazioni che i musei si trovano spesso costretti ad accettare, malgrado il reale valore delle opere possa rivelarsi, a volte, poco interessante.

Attenzione, quando scrivo “poco interessante” non mi riferisco in questo caso al valore storico/economico/estetico/merceologico dell’opera, ma al valore che l’opera ha in relazione al progetto scientifico e culturale del museo[1].

Si potrebbe essere portati a pensare che, trattandosi di musei statunitensi, il problema descritto dal NYT si riferisca alla legislazione vigente negli USA, e che poco abbia a che fare con le condizioni dei musei europei o italiani. In realtà, l’esiguità degli spazi e l’obbligo per i musei di conservare tutto ciò che viene donato da collezionisti o filantropi (o semplici cittadini), riguarda da vicino molte istituzioni in Europa e anche in Italia.

Le donazioni infatti, in America così come in Italia e nel resto del mondo, sono spesso legate a condizioni precise (quasi sempre queste condizioni sono descritte nei testamenti o nei documenti che accompagnano l’atto della donazione) che il museo è tenuto a rispettare nel momento in cui accetta di accogliere nelle proprie collezioni le opere donate. Secondo le leggi vigenti in molti paesi europei del resto, la donazione non può essere rifiutata (e spesso non lo è in ogni caso per ragioni diplomatiche e strategiche: un rifiuto potrebbe scoraggiare altri donatori, ad esempio).

Modalità di esposizione, inalienabilità (condizione che, ad esempio in Francia, contraddistingue qualsiasi opera che entri a far parte delle collezioni e identificata con un numero di inventario), durata dell’esposizione, sono tutte condizioni che vengono specificate nell’atto di donazione e che, in alcuni casi, possono essere estremamente precise e limitanti per il museo.

L’esempio della donazione della vedova Reves al Museo di Dallas, che prevedeva di ricreare cinque stanze della villa Reves – nel Sud della Francia – all’interno del museo americano, incluse le pantofole ben in vista nella ricostruita camera da letto, non è stato certamente scelto a caso dall’autore dell’articolo: sebbene possa far sorridere, il caso delle pantofole della Signora Reves è ben esemplificativo delle condizioni (e costrizioni) che il Museo può trovarsi a dover accettare in caso di donazione. E quella dei coniugi Reves non era certo una donazione da rifiutare: più di 1400 opere appartenute alla coppia di filantropi (tra cui spiccano moltissime opere di impressionisti francesi) e esposte nella celebre villa “La Pausa”, arredata e appartenuta fino agli anni Cinquanta a Coco Chanel. Una nuova ala del Museo di Dallas è stata costruita e inaugurata nel 1985 per accogliere questa importante collezione e la ricostruzione (voluta dalla donatrice) delle cinque stanze della villa in Costa Azzurra che ospitò personaggi più che celebri, del calibro di Winston Churchill. E non si stenta a credere che si tratti ancora oggi dell’ala più visitata del Museo…insomma, anche i curatori più intransigenti avranno dovuto sorvolare sul famoso paio di pantofole.

Ma torniamo ai depositi, perché l’articolo punta l’attenzione proprio sulla questione degli “storage rooms” ovvero quella parte del museo che, pur essendo nella maggior parte dei casi chiusa al pubblico, accoglie e conserva circa l’80% delle collezioni. Due grafici indicano molto chiaramente come ciò che è oggi esposto nei maggiori musei americani, costituisca la “punta dell’iceberg” mentre gran parte delle opere rimane “racchiusa” nei depositi (molto corretto anche il grafico che chiarisce come moltissime delle opere in deposito siano stampe, disegni, incisioni, ovvero collezioni su supporto cartaceo che non possono essere esposte in modo permanente a causa della loro sensibilità alla luce). Per tornare alla collezione Reves oggi a Dallas, è interessante notare come ben 400 opere delle 1200 donate dalla coppia di filantropi non siano esposte, potete consultare l’intera lista delle opere sul sito del museo (che lusso!).

La parte più interessante dell’articolo è, a mio avviso, quella che descrive la scelta, certo gravosa quanto coraggiosa, del direttore dell’Indianapolis Museum of Art, Charles L. Venable. Di fronte a un preventivo di 14 milioni di dollari, necessari per la costruzione di nuovi depositi per un numero di collezioni sempre più smisurato, Venable si è reso conto della necessità di un cambio di rotta nella gestione delle collezioni. Dal 2011, per ben 6 anni, un gruppo di esperti è stato incaricato di “etichettare” le opere classificandole da A a D secondo il loro “valore”, dove A è il valore più alto e D il più basso. Interessante notare come questo lavoro, affidato a consulenti esterni, sia stato pagato da un “grant” della Mellon Foundation, segno che il progetto di Venable è in realtà più compreso e appoggiato di quanto si pensi.

I criteri secondo i quali un’opera è stata classificata con A, B, C o D (dove la D corrispondeva quindi all’avvio del procedimento di radiazione dall’inventario e uscita dalle collezioni museali) erano:

  • l’importanza dell’opera rispetto alle collezioni del museo (immagino che quando Venable parla di Masterpiece si possa intendere un’opera di maggiore importanza rispetto ad altre dello stesso artista, un pezzo unico, un pezzo firmato, eccetera)
  • la sua qualità estetica
  • il suo stato di conservazione.

Ora, se sul primo criterio posso anche concordare, sul secondo non mi attarderò in quanto non è il mio campo e se ne potrebbe discutere per ore. Dal punto di vista di chi, come me, si occupa di conservazione preventiva è senz’altro il terzo criterio quello interessante.

Molte delle opere che hanno avuto attribuita la lettera D sono opere in cattivo stato di conservazione. Date un’occhiata al quiz che accompagna la lettura dell’articolo (ripeto, molto ben fatto) e capirete che lo stato di conservazione incide moltissimo sull’attribuzione della lettera D (che coincide – tristemente- con l’iniziale della parola “Deaccessioning” ovvero, radiazione dall’inventario).

Questo punto fa riflettere moltissimo su quanto lo stato di conservazione incida non soltanto sulla fruibilità dell’opera (un’opera in cattivo stato sarà difficilmente trasportata o esposta al pubblico) ma anche e soprattutto sul suo “status” di bene culturale, ovvero di bene pubblico del quale la collettività può godere oggi e in futuro.

A parità di importanza storica/estetica/artistica, l’opera radiata sarà quella in peggiore stato di conservazione. Restaurarla avrà un costo, il che la rende ancora meno “salvabile” nel contesto di restrizioni economiche in cui molti musei si ritrovano attualmente.

Tutto ciò non fa che avvalorare il nostro lavoro di prevenzione, il cui obiettivo principale è far sì che le generazioni future possano godere del patrimonio culturale allo stesso modo (se non meglio) di quelle attuali. L’idea non é conservare tutto e a qualsiasi costo, ma conservare bene.

Il museo americano assume la responsabilità di questa decisione senza nascondersi, tanto che un’intera sezione del sito dell’Indianapolis Museum of Art è dedicata alle opere radiate (è il caso anche per il Dallas Museum of Art).

Occorre sottolineare che “radiazione" non coincide con “eliminazione": le opere vengono, nel peggiore dei casi, vendute, oppure – e questo costituisce senz’altro il lato più che positivo della storia- vengono acquisite da altri musei. Come ricorda lo stesso Venable, quello che per un determinato museo costituisce ormai solo un fardello di poco valore (non in linea con il famoso progetto scientifico e culturale di cui sopra), può essere invece di grande valore per un’altra istituzione.

La problematica della selezione delle opere da conservare in deposito o da radiare è sempre più d’attualità nel mondo dei musei, tanto che l’associazione AprévU (Association des Préventeurs Universitaires) – di cui ho l’onore di essere membro – organizza il prossimo dicembre un’intera giornata di studio e dibattito su questo tema a Parigi.

In conclusione, un plauso al NYT per aver svelato un aspetto interessante e poco conosciuto del mondo dei musei e avermi dato lo spunto per questo articolo, che spero abbiate trovato interessante.

Stay tuned per il prossimo articolo, avremo un ospite di riguardo e faremo una rapida incursione nel mondo delle biblioteche!

[1] Il progetto scientifico e culturale di una istituzione costituisce il documento cardine dell’attività e della governance della stessa istituzione. Delinea gli obiettivi, la « mission » del museo, e le modalità con cui questi obiettivi devono essere raggiunti. Elaborato dalla direzione del museo, il progetto scientifico e culturale chiarisce il ruolo del museo nel panorama nazionale e internazionale, spiegando cosa il museo intende esporre, come e perché.